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sabato 16 gennaio 2016

La rugiada sotto i piedi

Volevo assaporare il meglio dell'alba e così uscii, quando il cielo appena cominciava a tingersi di quei toni di rosarancio che le eterne dita di Eos dipingono nello sbiadire delle stelle mattutine. Pedalai per un po', nell'assoluto silenzio di quel giorno neonato, lungo una stradina fiancheggiante frutteti nel pieno lussureggiare del loro essere. Lontano il gracidare di uno stagno.

Lasciai la bici lungo uno sterratino laterale, mentre il verde incantatore profumo dell'erba e l'abbondante ossigeno di quell'ora, intorpidivano lentamente la mia lucidità mentale. Non v'era suono, se non le impercettibili note che le gocce di rugiada suonano sull'erba fresca; di fronte a me si stendeva un immenso prato di trifoglio sul quale, in ordinate file, alberi di kaki indugiavano ancora al sonno.


Tolsi scarpe e calzini e i miei piedi nudi affondarono nei trifogli inondati di milioni di goccioline, luccicanti monadi di un'ora amata da pochi. Fu un incerto incedere quello dei primi passi,  corpo e mente dimentichi da milioni di anni che quelli erano stati i primi passi dell'uomo, simbiotico contatto fra l'anima della terra e la pianta dei piedi. Fu come mettere radici ad ogni passo, il freddo fresco che saliva come linfa verso la mente ormai vuota di ragionamenti, appagata solo da quel contatto primitivo e intimo con la grande Madre.

Ebbi un fremito, una sorta di scossa elettrica che aveva rimesso in moto gli antichi ingranaggi di un DNA sepolto da se stesso e ora risvegliato da un sonno millenario. Mi sentii non più facente parte del genere umano, ma creatura, figlia stessa della Terra su cui camminavo.

Quando il sole comparve all'orizzonte, allungando i suoi raggi a cancellare le pennellate di Eos, tornai sui miei passi, rinnovata nel corpo, pulita nell'anima, con la consapevolezza di aver ritrovato il punto di unione perduto.




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