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domenica 6 dicembre 2015

La nebbia dell'ignoto

 Apro gli occhi, sono in mezzo ad un mare di nebbia spessa, senza punti di riferimento, senza luce, immersa in un grigiore tutto uguale, dove anche il respiro si fa affannoso. 
Il passo è incerto, non v'è percezione di ciò che mi circonda. Giro su me stessa ma tutto intorno a me è uguale. Cerco disperatamente di guardarmi i piedi, per capire dove poggiano, ma non li vedo, sento solo qualcosa di gelatinoso e globoso che mina la mia stabilità. Provo a camminare, lentamente, portando le mani avanti, per proteggermi, ma sembra che mi trovi in uno sterminato spazio aperto dove non c'è suono, solo nebbia. 

Sembra un muro gigantesco, impenetrabile, che il mio tatto percepisce, ma che non è consistente. E' una cataratta che mi avvolge, e io cerco di camminare.
Ad ogni passo mi pare di sprofondare, come su trucioli di gomma, barcollo. Non riesco ad articolare parole, vorrei urlare, ma non ci riesco, sono sola con i miei pensieri e un intento che non controllo.
La nebbia preme sul mio corpo, ne avverto la pesantezza, so che non devo fermarmi per nessun motivo, mi sento braccata, ma non so da cosa o chi.

Vado avanti a tentoni, incespicando, camminando in quella che mi pare essere una eternità caotica e senza forma. Non ho percezione del tempo che passa, senza riferimenti visivi è come non esistere. 
Mi struggo, nella paura e nella disperazione e quando il mio io cede alla rassegnazione, mi accascio a terra e allora sento, come foglie di sottobosco umide, il fruscio di un terreno reale, e la nebbia comincia a lasciare qualche sprazzo di confuso panorama.

Di fronte a me un ponte. Ma dove porta? Su cosa è sospeso? Cosa c'è al di là? Mi siedo al suo limitare, sotto il ponte nebbia, intorno nebbia, la mia vista scorge solo pochi metri avanti, un tratto del ponte che penetra dentro questo grigio muro. Mi par di percepire una voce, una voce che viene da dentro, che mi istiga ad andare avanti, guardo il ponte, forse c'è qualcuno, una sembianza che si confonde con il lattiginoso essere di questo velo nebbioso che copre ogni cosa. 

Comincio a percorrere il ponte, scossa dal terrore del vuoto, strizzo gli occhi per mettere a fuoco l'incerta forma che sembra attendermi in quella che credo essere la metà del ponte. Dentro la mia testa risuona sempre più forte quella voce che mi incita, quasi mi frustasse, ad andare avanti, ma cos'è quella voce? 

Mi prendo la testa fra le mani, forse sto impazzendo, ma non la  posso  arginare, ripete continuamente di andare avanti. Voglio gettarmi nel vuoto, e farla finita, ma non riesco a staccare i piedi da terra se non per proseguire.
Cedo, non ho più la forza di contrastare quella voce, chiudo gli occhi e disarmata, lascio che quella voce sia la mia guida. 
All'improvviso un lieve tepore,  socchiudo le palpebre, mi ritrovo nel mio mondo, niente più nebbia, solo in lontananza quella voce: "Sono la voce del "vedere", hai assaggiato l'ignoto!"


domenica 17 novembre 2013

MONNA VANNA DETTA GINA


Monna Vanna, detta Gina, era la mia professoressa di greco e latino ai tempi del liceo. Donna tutta d'un pezzo, di grande sapere e altrettanta disciplina. Severa, anzi severissima, era il terrore di tutti gli studenti. Il suo passo risuonava per i corridoi, come fosse quello del boia che stava andando a giustiziare il condannato, quando entrava in classe, la salivazione di noi ragazzi si azzerava totalmente, e una strana sensazione si impadroniva dei nostri corpi. Era la paura. Molti di voi si domanderanno: il terrore era legato alla coscienza sporca di chi non aveva studiato? No, era semplicemente legato a lei.
Potevi aver studiato di tutto e di più, ma lei incuteva comunque terrore, e sapete perchè? Perchè era in grado di parlare il greco antico come parlava italiano, la sua lingua madre.
Traduceva qualunque cosa, anche un solo verbo buttato lì, aveva una memoria incredibile, ed era in grado di recitare in greco antico Iliade, Odissea e lirici greci in metrica.
Ora, di fronte ad una donna così, ma che dico donna, forse essere di un altro mondo,  proveniente direttamente dal V secolo avanti Cristo, voi come vi sentireste? 
I suoi medoti erano semplici, ma avevano pur sempre il sapore delle torture della Santa Inquisizione spagnola. Lei, a differenza degli altri professori, interrogava a spron battuto tutti i giorni, e la cerimonia pre interrogazione era un lento stillicidio di sofferenza per noi alunni.
Apriva il registro, nel silenzio sepolcrale che lei stessa aveva creato entrando in aula, si sentivano solamente il fruscio delle pagine e il lieve colpetto di tosse con cui si schiariva la voce. Prendeva la sua penna personalizzata, alzava la testa per scrutare tutti noi, che, statue di cera, la fissavamo in trance, con il sangue che pulsava nelle tempie e il cuore in gola.
Poi con grande concentrazione cominciava a scorrere i nostri nomi dall'alto al basso e dal basso in alto, aiutandosi con la penna: non si sapeva mai per quanto tempo lo facesse, era imprevedibile. 
Durante quegli interminabili minuti nelle nostre teste si sentiva solo il suono di un pendolo, sì quello che scandiva le ultime ore di un condannato a morte. DON, DON, DON.......
Poi con un gesto fulmineo come l'attaco di un cobra dagli occhiali, la punta della penna cadeva su un nome e lei lo pronunciava. Il chiamato al sacrificio si alzava, senza alcun controllo su se stesso, mentre gli altri, madidi di sudore freddo, appoggiavano la fronte sul banco per qualche secondo, poi iniziava l'interrogazione. Stessa cosa accadeva il giorno del compito in classe, greco o latino che fosse. Lei arrivava con il suo incedere, la fotocopia della versione per noi tutti in mano. Spostava sapientemente i banchi, distanziandoli, in modo tale che fosse impossibile la comunicazione verbale e non, distribuiva la versione, e poi la leggeva. Era il momento topico, bisognava stare ben attenti all'inflessione della voce, dove faceva una pausa, lì bisognava mettere una virgola o fare un segno, poteva essere la svolta per capire il senso della versione. Poi il nulla per due ore, tranne qualche sospiro disperato, e il rumore delle pagine del vecchio Rocci o del Badellino-Calonghi che scorrevano fra le nostre dita. Al termine delle due ore, sui nostri volti i segni di quella tremenda pugna, e le relative conferenze che ne scaturivano.
Poi iniziava l'attesa, sì, quella del giorno in cui avrebbe riportato i compiti corretti. Erano giorni in cui l'Inferno si materializzava sulla terra, i peggiori dubbi tormentavano le nostre anime, ma ormai ciò che era stato fatto non si poteva cambiare. Quando entrava con i fogli protocollo sotto il braccio, molti chiedevano il permesso di andare in bagno, e ho detto tutto. Ma quell'amaro calice non poteva esser allontanato, Monna Vanna consegnava sempre a me il fascio dei fogli protocollo e a me toccava consegnare i compiti corretti, sistemati in ordine crescente, quindi dal voto più basso a quello più alto. Sono passati ventidue anni, e ancora oggi, nei periodi in cui sono maggiormente sottoposta a stress, ricevo le visite di Monna Vanna, detta Gina, nei miei sogni, con la penna in una mano e i compiti nell'altra. Eppure dopo tutti questi anni, di fronte ad un testo greco o latino, sono ancora in grado di tradurre.
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