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venerdì 20 maggio 2016

Mosciame, un cibo antico dei marinai

MOSCIAME: era un cibo antichissimo, molto viareggino, ormai diffuso soltanto fra la gente di mare: quindi è inutile cercarlo nei negozi e meno che mai nei libri di ricette gastronomiche. Si tratta di strisce di delfino seccate al sole: strisce, non fette. Una volta fatto si presenta come un rotolo di tabacco da masticare, bruno nerastro con venature rossicce, forma tondeggiante con un diametro di circa venti millimetri e lunghezza varia, fino a cinquanta centimetri. I marinai e la gente di costa lo masticavano allo stato grezzo, per meglio gustare il sapore forte di pesce e di mare. La "morte" del mosciame è l'insalata. Bastava affettarlo sottilissimo e condire con l'olio d'oliva, aceto e pepe. Ottimo antipasto e anche cena, con pomodoro quasi maturo o con fagioli lessi o con le due cose insieme.

Mosciame di tonno

Ma come facevano a procurarselo questo "mosciame"? Il marinaio, appena ucciso il delfino lo riduceva subito a strisce nel senso della lunghezza, seguendo le nervature. Tutto il delfino era buono, mail petto e il ventre erano le parti prelibate. Le strisce ottenute, lavate con acqua di mare, venivano messe in salamoia per un giorno: formato il primo strato sul fondo di un recipiente lo si copre di sale e via via così per gli strati successivi.

Poi, senza lavarle, le strisce venivano legate una sotto l'altra ed esposte al sole: per sei- sette giorni d'estate, otto- dieci in autunno. Una volta seccato a puntino, il "mosciame" doveva risultare duro, ma non legnoso; da potersi mordere, insomma. E se uno non era marinaio? Il delfino si poteva trovare sul mercato: si sceglieva il ventre, se possibile, e lo si faceva tagliare a strisce. Il pesciaiolo capiva immediatamente che si voleva fare il mosciame.


mercoledì 2 settembre 2015

Ad usum Delphini

Eccoci qua ancora una volta, il delfino non è solo un cetaceo, e i nostri cari antenati latini ci hanno ormai abituato a motti e adagi sorprendenti. Quello che andrò a spiegare adesso, contiene appunto il sostantivo Delfino, ma qui con un dìsignificato ben più pregnante.

Ad usum Delphini: ad uso del Delfino, l'espressione si riferisce all'edizione di alcuni classici opportunamente censurata dagli ecclesiastici J.B. Bossuet e P.D. Huet ad uso appunto del Delfino, che era l'erede al trono del Re Sole. Si usa ancor oggi per indicare sia la versione riveduta di un testo, specie a fini scolastici, sia per significare l'adattamento di una situazione a proprio vantaggio.

domenica 19 aprile 2015

Mic, il gatto che sognava di essere un delfino

Sono sempre stata una divoratrice di storie, e rimpiango i tempi in cui in quelle storie potevo davvero immedesimarmi, completamente. Sono poche ora le letture che il tempo ingannatore può concedermi, quindi scelgo ciò di cui la mia "animatamente" vuole cibarsi. Immedesimazione, quasi incarnazione, avete mai provato questa sensazione o avete mai desiderato sentirvi qualcun altro? Vedere il mondo attraverso occhi altrui, sentire e vivere attraverso mente e corpo che non appartengono alla  vostra sfera emozionale? Io sì, ecco perchè mi piacciono le memorie altrui. Qui trovo compenetrazione,  e acquisto una consapevolezza non mia, saltellando fra le righe fluide di una vita e del suo svolgersi che non vivo in parallelo ma in cui mi identifico. La compenetrazione allarga la mente e questo apre alla comprensione.


Così mi sono incarnata in un gatto e nelle sue memorie, di cui mi è giunto uno stralcio, l'incipit di una coinvolgente avventura umanamente felina, fatta di riflessioni, ragionamenti e vivide descrizioni. Mic parla in prima persona, con la delicatezza tipica dei felini, ripercorrendo la strada che dal caldo abbraccio di mamma gatta l'ha portato al quasi graffiante incontro con Lisa, la sua umana.  Ferruccio Gianola, autore di queste feline memorie, "Il gatto che sognava di essere un delfino", più che autore è un veggente sciamano, tanto ha saputo interpretare quell'essenza che fa dei gatti un universo ancora sconosciuto per molti aspetti.

Sì, perchè nel momento in cui essi entrano a far parte della nostra vita, sono loro a gestire le fila del gioco non noi, noi siamo sul palcoscenico e loro ci osservano con sottile ironia e a volte con marcato disappunto, un modo di essere il loro  che li contraddistingue per la capacità di farsi servire anzichè essere servi, ma non è opportunismo è coerenza con se stessi. E Ferruccio Gianola ha colto egregiamente questo aspetto. Non vi svelerò perchè Mic desiderava essere un delfino, ma posso anticiparvi che le sue ragioni sono disarmanti.  Non voglio dilungarmi oltre, vi lascio alle parole di Mic:


"Ricordo ben poco di mia madre. Quando mi presero e mi portarono via, succhiavo ancora dai suoi capezzoli, perciò non chiedetemi se fosse bella o se mi somigliasse: sono dettagli senza importanza ai fini delle storie che voglio raccontare. Non ricordo nulla neppure dei miei fratelli, a parte i miagolii nella cuccia e il colore nero di uno di loro. In quei pochi giorni passati insieme non facemmo altro che lottare e sospingerci per trovare il posto migliore adatto a succhiare.

Così le memorie più vive che possiedo mi portano dentro una vasca da bagno bianca illuminata dai raggi del sole che entravano dalla finestra aperta. Doveva trattarsi della stanza di una piccola mansarda situata in un palazzo nei dintorni di Milano, ma non posso confermarlo con certezza: non ho più avuto l’occasione di rivedere quel luogo dopo quella volta. Restai lì dentro a lungo, senza capire cosa stesse succedendo e cosa mi riservasse il futuro, con una ciotola piena d’acqua e un piattino contenente alcune fettine di prosciutto cotto sgrassato.

Faceva caldo quella mattina e degli uccelli, innervosendomi, facevano capolino sul davanzale della finestra aperta a curiosare. Era tutto ciò che potevo cogliere con lo sguardo sollevando il muso.
Trascorsi le ore nel tentativo di risalire e uscire da quella specie di trappola smaltata di bianco. Miagolavo con la speranza che qualcuno mi sentisse e venisse in mio soccorso, ma la situazione sembrava senza via di uscita.

Poi, all’improvviso, quando la mia sfiducia era giunta quasi al culmine, la porta si spalancò. Entrò una ragazza. Si abbassò per afferrarmi e mentre lo fece le sfiorai con le zampe i capelli sottili e lunghi. Aveva uno strano e buon odore. Questa sciocca però mi prese nel modo sbagliato e invece di afferrarmi per la collottola, come aveva sempre fatto mia madre, mi strinse le costole.
Solo in seguito capii che non desiderava farmi del male, ma di primo acchito, d’istinto, le soffiai addosso e cercai di graffiarla.

«Sei un leone» disse. Era molto graziosa, per essere una donna. Aveva i lineamenti del viso sottili e delicati. Indossava dei jeans e una maglietta bianca con un cuore disegnato sopra che pareva vero.
Mi guardò con curiosità, sollevandomi con la mano destra verso l’alto, fissandomi a lungo. Poi rise come una bambina.  Era Lisa e mi sarebbe rimasta accanto per il resto della vita."

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